“La Sharing Economy cresce, si, ma siamo ormai giunti al capolinea della definizione originaria quella che premiava la spinta collaborativa tra gli individui a scambiarsi beni e servizi dal basso.” spiega Federico Capeci, Chief Digital Officer & CEO Italia, KANTAR TNS, “Dobbiamo infatti approcciare le considerazioni sociali ed economiche in modo più allargato o almeno riconoscerne le differenti componenti fondative.”
Se la percentuale di chi offre servizi di condivisione è a cresciota lenta, sale invece la percentuale di utilizzatori connessi che approfittano della Sharing Economy, tanto che siamo passati dal 39% dello scorso anno al 53% del 2016. L’ingresso nel mercato di grosse realtà come Uber e Airbnb ha generato una sostanza economica non trascurabile ma ha “annacquato” il concetto fondamentale alla base del consumo collettivo, imperniato su tre concetti base: condivisione dell’esperienza, imprenditorialità e un certo senso etico e di anti consumismo.
Italiani dunque grandi utilizzatori di servizi condivisi ma poco propensi a condividere, almeno rispetto ai “cugini” francesi che sono i migliori tra i TOP5 in Europa: se il 36% degli utenti connessi associa la propria attività alla Sharing Economy, il 44% ne dichiara l’effettivo utilizzo, numeri che dimostrano una maggiore propensione alla condivisione.
Tra i settori maggiormente interessati dal consumo collettivo troviamo l’industria multimediale, quella della mobilità e quella dell’accoglienza mentre tutte le altre realtà sono ancora a uno stadio iniziale e stentano ad affermarsi. Quello che frena la diffusione di questo modello economico, soprattutto tra gli utenti tedeschi c’è la mancanza di chiarezza in termini di responsabilità, la mancanza di fiducia e la paura di vedere deluse le proprie aspettative.
“Il rischio più evidente però sembra quello di banalizzare il vero senso sociale di questo nuovo paradigma economico: se viene percepito dagli utenti come “semplice” servizio alternativo a quelli più canonici, tenderà a non sfruttare appieno le potenzialità dei nuovi ed emergenti trend sociali e di consumo.”
Ecco perché, secondo Federico Capeci, c’è il rischio e la possibilità che prevalgano il servizio e il risparmio economico rispetto ai valori alla base della Sharing Economy. Per scongiurare questa eventualità le aziende di beni e servizi dovranno essere in grado di trasformare il proprio modello di business, integrando il nuovo modello di condivisione e valorizzandolo come segno distintivo per il proprio brand. La chiave della trasformazione della Sharing Economy potrebbe venire dunque dalle imprese e dalla loro capacità di condividere i loro asset industriali o le loro expertise specifiche con i propri consumatori.
È evidente comunque che la Sharing Economy non sarebbe potuta affermarsi senza l’attuale tecnologia. I nuovi servizi di condivisione fanno ampio uso di Internet e delle tecnologie mobili, che risultano essenziali per il loro funzionamento. Che ci piaccia o no siamo utenti connessi e senza un’applicazione sul nostro smartphone un servizio come Uber non potrebbe esistere, ma anche servizi minori di car sharing, gli alloggi condivisi e i tanti progetti di fundraising sarebbero difficilmente gestibili senza un concreto supporto tecnologico.
Fate parte di quella fetta di italiani che partecipano attivamente alla Sharing Economy, vi limitate ad utilizzarne i servizi o ci sono ancora troppi punti oscuri che dovranno inevitabilmente essere chiariti per far crescere questo paradigma economico? Fateci conoscere le vostre opinioni nel box dei commenti.