L’economia della condivisione si sta facendo prepotentemente spazio nelle abitudini di consumo degli italiani. Dal 2014 a oggi, la percentuale degli italiani, con accesso a Internet, che associa la propria attività a servizi di condivisione è passata da 22 al 27 per cento, dopo che tra il 2013 e il 2014 era passata dal 13 al 22 per cento

La Sharing Economy cresce, si, ma siamo ormai giunti al capolinea della definizione originaria quella che premiava la spinta collaborativa tra gli individui a scambiarsi beni e servizi dal basso.” spiega Federico Capeci, Chief Digital Officer & CEO Italia, KANTAR TNS, “Dobbiamo infatti approcciare le considerazioni sociali ed economiche in modo più allargato o almeno riconoscerne le differenti componenti fondative.

Se la percentuale di chi offre servizi di condivisione è a cresciota lenta, sale invece la percentuale di utilizzatori connessi che approfittano della Sharing Economy, tanto che siamo passati dal 39% dello scorso anno al 53% del 2016. L’ingresso nel mercato di grosse realtà come Uber e Airbnb ha generato una sostanza economica non trascurabile ma ha “annacquato” il concetto fondamentale alla base del consumo collettivo, imperniato su tre concetti base: condivisione dell’esperienza, imprenditorialità e un certo senso etico e di anti consumismo.

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Italiani dunque grandi utilizzatori di servizi condivisi ma poco propensi a condividere, almeno rispetto ai “cugini” francesi che sono i migliori tra i TOP5 in Europa: se il 36% degli utenti connessi associa la propria attività alla Sharing Economy, il 44% ne dichiara l’effettivo utilizzo, numeri che dimostrano una maggiore propensione alla condivisione.

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Tra i settori maggiormente interessati dal consumo collettivo troviamo l’industria multimediale, quella della mobilità e quella dell’accoglienza mentre tutte le altre realtà sono ancora a uno stadio iniziale e stentano ad affermarsi. Quello che frena la diffusione di questo modello economico, soprattutto tra gli utenti tedeschi c’è la mancanza di chiarezza in termini di responsabilità, la mancanza di fiducia e la paura di vedere deluse le proprie aspettative.

Il rischio più evidente però sembra quello di banalizzare il vero senso sociale di questo nuovo paradigma economico: se viene percepito dagli utenti come “semplice” servizio alternativo a quelli più canonici, tenderà a non sfruttare appieno le potenzialità dei nuovi ed emergenti trend sociali e di consumo.

Ecco perché, secondo Federico Capeci, c’è il rischio e la possibilità che prevalgano il servizio e il risparmio economico rispetto ai valori alla base della Sharing Economy. Per scongiurare questa eventualità le aziende di beni e servizi dovranno essere in grado di trasformare il proprio modello di business, integrando il nuovo modello di condivisione e valorizzandolo come segno distintivo per il proprio brand. La chiave della trasformazione della Sharing Economy potrebbe venire dunque dalle imprese e dalla loro capacità di condividere i loro asset industriali o le loro expertise specifiche con i propri consumatori.

È evidente comunque che la Sharing Economy non sarebbe potuta affermarsi senza l’attuale tecnologia. I nuovi servizi di condivisione fanno ampio uso di Internet e delle tecnologie mobili, che risultano essenziali per il loro funzionamento. Che ci piaccia o no siamo utenti connessi e senza un’applicazione sul nostro smartphone un servizio come Uber non potrebbe esistere, ma anche servizi minori di car sharing, gli alloggi condivisi e i tanti progetti di fundraising sarebbero difficilmente gestibili senza un concreto supporto tecnologico.

Fate parte di quella fetta di italiani che partecipano attivamente alla Sharing Economy, vi limitate ad utilizzarne i servizi o ci sono ancora troppi punti oscuri che dovranno inevitabilmente essere chiariti per far crescere questo paradigma economico? Fateci conoscere le vostre opinioni nel box dei commenti.