Viviamo in un periodo storico caratterizzato da una sorta di stallo nell’innovazione tecnologica, conseguente ad un vero e proprio boom che ha caratterizzato il periodo della pandemia da COVID-19 a cavallo tra 2020 e 2021 nel quale la tecnologia ha probabilmente fatto più passi in avanti di quelli inizialmente preventivati. In questo stallo, ciò su cui i produttori riescono (almeno in parte) ad innovare è il software; un mix tra software sempre meno stabili e crescente facilità con cui accedere al software in anteprima ci spinge a volere vivere in beta per essere sempre i primi ad assaggiare le (poche) novità residue.

Sparito l’effetto wow lato hardware, infatti, possiamo quasi dire che il software sia ormai l’ago della bilancia nella scelta di uno smartphone (ma anche dei computer e di tutti gli altri dispositivi con software aggiornabile). Lo stesso discorso, poi, potrebbe essere allargato per includere le app. Cominciamo dunque una sorta di viaggio che parte dall’analisi della situazione attuale per poi spingersi oltre, cercando di comprendere quali sono i motivi che ci spingono a vivere costantemente in beta.

Il nostro viaggio parte più di dieci anni fa

Chi, come me, è nato all’inizio degli anni ’90 ha vissuto in prima persona l’ascesa del mercato degli smartphone e la sempre più variegata dotazione tecnica racchiusa all’interno di questi piccoli miracoli della tecnologia.

Il mio primo smartphone di fascia alta è stato un Samsung Galaxy S2 (correva l’anno 2011), un dispositivo che mi procurò un enorme effetto wow sin dalla prima volta che l’ho preso in mano. Oggi la sua dotazione tecnica, di altissimo livello allora, fa ridere: CPU dual-core, 1 GB di RAM e 32 GB di spazio di archiviazione, display da appena 4,3 pollici, singola fotocamera posteriore da 8 megapixel, fotocamera anteriore da 2 megapixel, batteria removibile da 1650 mAh, design in plastica (retro e frame laterale) e vetro (fronte).

Oggi, 2023, rimanendo in casa Samsung, il modello che si colloca come erede spirituale del vecchio Galaxy S2 è probabilmente il Samsung Galaxy S23 “base” (trovate qui la nostra recensione), un dispositivo che può contare su una CPU octa-core (probabilmente la migliore attualmente in commercio), 8 GB di RAM e 128/256 GB di spazio di archiviazione, display da 6,1 pollici, tripla fotocamera posteriore da 50+10+12 megapixel, fotocamera anteriore da 12 megapixel, batteria da 3900 mAh, design in alluminio (frame laterale) e vetro (fronte e retro).

Samsung Galaxy S II vs Galaxy S23

Non mi sognerei mai di paragonare questi due smartphone tra loro, dato che appartengono a due momenti completamente diversi dell’evoluzione tecnologica del settore; vale però la pena di prendere in considerazione tutto ciò che c’è stato in mezzo tra i due.

Prendendo in esame la sola serie Galaxy, nei primi anni abbiamo avuto un incremento pazzesco delle performance (a tutto tondo) tra un modello e l’altro; la prima, vera, evoluzione (al netto dell’introduzione dei modelli Edge e Plus, rispettivamente inglobati e aggiunti alla gamma), si è avuta nel 2017 con la serie Galaxy S8, la prima del colosso sudcoreano priva del tasto home fisico.

A differenza di altri brand, poi, Samsung non è passata per la via del notch (almeno sui propri flagship), arrivando direttamente all’integrazione della fotocamera in un foro sul display, decentrato sulla destra, a partire dal 2019 con i Galaxy S10; poi, dal 2020, con i Galaxy S20, la fotocamera anteriore è stata spostata nella parte centrale, collocazione che ha ancora oggi.

Parlando un attimo di comparto fotografico posteriore, negli anni abbiamo assistito dapprima al miglioramento qualitativo del sensore principale e poi all’aggiunta di un numero crescente di sensori (specifici ma spesso inutili all’atto pratico) per comporre comparti fotografici sempre più pompati.

Ma i cambiamenti estetici, l’incremento delle prestazioni e il miglioramento delle qualità fotografiche sono soltanto la punta dell’iceberg di questo discorso.

La tecnologia è arrivata al plateau

Come conseguenza dello scoppio della pandemia da COVID-19, che ci ha costretti a casa per un lungo periodo, le aziende sono corse ai ripari per mettere a disposizione degli utenti tutta la tecnologia possibile. L’obiettivo era quello di mantenere tutti gli utenti connessi.

Tutto ciò ha generato, dal mio punto di vista, due problematiche:

  1. Nel giro di pochi mesi sono stati compiuti tutti i passi in avanti che, in tempi non sospetti (o in assenza della pandemia), avremmo compiuto più lentamente.
  2. Per far fronte ad una grande domanda (che si pensava potesse durare più a lungo di quanto è effettivamente durata) è stata generata una enorme offerta; questo ha fatto sì che le aziende si ritrovassero zeppe di fondi di magazzino che, in qualche modo, dovevano essere venduti.

Ed ecco che, dal 2021 ad oggi, l’innovazione anno su anno, modello su modello, è ai minimi termini da tempo immemore. È scomparso l’effetto wow. Aggiungiamo all’equazione il fatto che i prezzi degli smartphone (e di tutta la tecnologia in generale) sono schizzati alle stelle e la frittata è fatta.

Un esempio calzante: i flagship 2021 sono preferibili ai medio-gamma 2023?

Non è la prima volta che sulle nostre pagine viene sollevato un dubbio del genere. È qualcosa di piuttosto ragionevole: chi ci segue, saprà che ogni prima domenica del mese pubblichiamo una nuova puntata di #TopSmartphone, la nostra rubrica mensile che cerca di analizzare, in maniera onesta, quali possono essere i migliori smartphone Android per fascia di prezzo.

Spesso e volentieri, ci troviamo a suggerire modelli del 2022 (o addirittura del 2021) al posto dei modelli più recenti, lanciati sul mercato a prezzi decisamente fuori fuoco (e anche le aziende hanno coscienza di ciò): un nuovo telefono che oggi, al momento del lancio, viene proposto a 500 euro di listino, dopo appena un mese costa già meno di 400 euro.

Questi lanci fuori posto, uniti ai fisiologici cali di prezzo, fanno sì che gli ex flagship vadano a scontrarsi direttamente con i nuovi modelli di fascia inferiore. Un esempio lampante di ciò, è Samsung Galaxy A54, lanciato lo scorso 15 marzo a 499 euro di listino e già acquistabile (almeno in rete) attorno ai 400 euro.

Su quella stessa fascia di prezzo oggi, si riesce a trovare il cugino Samsung Galaxy S21 FE, lanciato da Samsung all’alba del 2022 al prezzo di 769 euro. Ho preso lui ad esempio perché, lato specifiche, è paragonabile in tutto e per tutto ad un flagship del 2021. In questo articolo potete trovare il nostro approfondimento sulla questione.

Tanti “nuovi” smartphone sanno di già visto

Specie sulla fascia media, poi, i nuovi modelli rappresentano la riproposizione di smartphone della precedente generazione con pochissime differenze estetiche e minimi miglioramenti (o peggioramenti) lato specifiche tecniche (spesso e volentieri nel solo comparto fotografico).

Soprattutto i produttori cinesi hanno il vizio di giocare su questo aspetto e potremmo portare esempi come i “nuovi” membri della gamma Redmi Note 12 e il recentissimo OnePlus Nord CE 3 Lite 5G: cosa hanno in comune tra loro questi smartphone? Sono fotocopie dei loro predecessori impacchettate in gusci dal design più attuale.

La vera differenza tra i modelli di due generazioni consecutive, almeno nella fascia media, sta nel software, (quasi sempre) più aggiornato di un anno e che quindi consentirà allo smartphone di “vivere”, a parità di hardware, un supporto più lungo di un anno.

Riassumendo il tutto, la situazione generale è: i top di gamma durano effettivamente di più per quanto concerne il supporto software e innovano un pelo ciò che offrivano i predecessori; i medio-gamma vengono aggiornati in minima parte lato specifiche ma introducono novità estetiche e un software più aggiornato rispetto ai predecessori.

Confronto dimensioni OnePlus Nord CE 2 Lite 5G vs OnePlus Nord CE 3 Lite 5G

La nuova frontiera dell’appeal di un brand passa dal suo supporto a lungo termine

Con la tecnologia che ha raggiunto questa sorta di plateau, questa quasi “impossibilità” di innovare (unita alla mancanza di necessità di spingere) lato hardware ha fatto sì che, negli ultimi anni, i principali player del panorama degli smartphone si concentrassero sul fornire supporti software più lunghi possibile ai propri utenti.

Se da un lato troviamo Apple e la sua gabbia dorata che fornisce, in media, 5-6 anni di supporto software per i propri iPhone, dall’altro lato abbiamo Android che vive da sempre una situazione “variegata” che si traduce in frammentazione, dovuta soprattutto al diverso modo che hanno i vari produttori di interpretare il sistema operativo che gira a bordo dei propri smartphone.

Senza allargarmi oltre, sul panorama Android la regina indiscussa degli aggiornamenti è Samsung che, da un anno a questa parte, propone un supporto software 4+5 per tutti i propri smartphone di punta e per i più interessanti modelli di fascia media. Recentemente, produttori come OPPO e OnePlus o come HONOR hanno cercato di pareggiare il colosso sudcoreano ma solo sui più recenti modelli di punta.

Nonostante Google sviluppi Android, il supporto software offerto dal colosso di Mountain View si ferma un anno prima rispetto a quello proposto da Samsung che, inoltre, si sta confermando come la più rapida a fornire aggiornamenti software per tutti i propri modelli.

Il supporto software dei principali produttori

Vivere con l’ansia da aggiornamento

A proposito della rapidità con la quale i produttori diffondono gli aggiornamenti software per i propri smartphone, frequentando vari gruppi social, community e sub-Reddit, emerge un aspetto sempre più spaventoso: oggi viviamo con una costante ansia da aggiornamento; non vediamo l’ora che il nostro smartphone ci notifichi la presenza di un aggiornamento software nella speranza che vada a migliorare qualcosa.

Giusto per fare un esempio, per due mesi di fila Google ha fatto registrare un ritardo (di una settimana eh, non parliamo di tempi biblici) nella distribuzione degli aggiornamenti mensili; il fatto ha comunque generato un mix tra panico e indignazione all’interno della community.

C’è tuttavia un importante aspetto da considerare rispetto al passato, qualcosa che spesso e volentieri vi diciamo anche nelle nostre video-recensioni: “sicuramente, con qualche aggiornamento software, produttore XY risolverà questi problemini e lo smartphone migliorerà di molto”.

Traducendo e leggendo un po’ tra le righe, è come se alcuni smartphone venissero lanciati sul mercato con un software ancora in beta, una sorta di versione di anteprima fatta ad hoc per poi sperare nei feedback degli utenti e dei recensori, qua e là, in modo da apportare le dovute correzioni.

Ansia da aggiornamento

La tematica “patch di sicurezza”

Un altro motivo per cui siamo ansiosi di ricevere un aggiornamento software è dato dalla volontà di avere sul nostro smartphone, in ogni momento, le ultime patch di sicurezza disponibili.

Si tratta di una cosa utile o inutile? Mezzo sì, mezzo no. Negli ultimi tempi sentiamo sempre più spesso parlare di vulnerabilità a cui siamo esposti (ma, in linea di massima, ne sentiamo parlare dopo che sono state effettivamente risolte).

È sicuramente un bene avere a bordo dello smartphone le ultime patch di sicurezza disponibili ma, in linea di massima, non si muore se quelle presenti risalgono a uno o due mesi addietro. Va da sé che uno smartphone che esegue una vecchissima versione del sistema operativo e non riceve patch di sicurezza da anni sarà indubbiamente meno sicuro di uno smartphone aggiornato.

Oggi si va oltre: gli utenti scelgono di proposito il software “beta”

Oltre al desiderio di avere sempre la versione più aggiornata disponibile di software e patch di sicurezza, sempre più utenti vanno oltre, cercando (quando possibile) di ottenere il software in anteprima per conoscere e testare prima della massa le funzionalità che vedremo nella generazione successiva del sistema operativo.

Prendendo spunto da un pezzo pubblicato nel lontano 2010 da Tom Fishburne, in principio le versioni beta erano limitate a piccoli gruppi di beta tester che le provavano per aiutare gli sviluppatori a risolvere i bug prima che la versione definitiva arrivasse sul mercato.

Oggi non è più così. I programmi beta sono sempre meno ristretti, sempre meno esclusivi e rappresentano una quasi normalità.

Il vantaggio dei due grossi player del mercato smartphone, ovvero quelli che sviluppano in prima persona il sistema operativo, parliamo di Apple e Google, è quello di proporre i programmi beta dei loro sistemi operativi praticamente durante tutto l’anno.

Altri produttori, come Samsung o i maggiori produttori cinesi, aprono i loro programmi beta (spesso solo al di fuori dell’Italia) quasi esclusivamente durante lo sviluppo che porta ai successivi major update (e sulle pagine social italiane si percepisce una sorta di “invidia” verso quegli utenti di altre regioni che possono accedere a questi programmi).

Oggi, molti utenti iPhone e molti utenti Pixel, vivono costantemente in beta. Facendo un giro in rete tra Facebook, Twitter, Reddit e community varie, si può addirittura notare come molti di essi bramino ardentemente il rilascio della prossima versione in anteprima perché, magari, quella del momento presenta un sacco di problemi. Insomma, siamo tutti beta tester.

Poi, certo, ci sarebbe da capire quanti di loro effettivamente forniscano dei feedback reali alle aziende (tramite gli appositi hub di feedback) e quanti invece no, limitandosi ad utilizzare il software in anteprima perché “Oh, ciccio, io ho sta funzione nuova che tu non hai“.

Software stabile vs software in beta

Anche con le app non si scherza

L’ansia da aggiornamento passa anche dalle app, delle cose che, per forza di cose, fanno sempre più parte della nostra vita.

A parte i sistemi operativi, anche le applicazioni sono disponibili in versione beta; il numero di esse che forniscono un programma beta aumenta costantemente e i vari sviluppatori li stanno aprendo praticamente a tutti quegli utenti che ne vogliano fare parte per testare in anteprima le novità che presto verranno introdotte sulla versione stabile dell’app (d’altro canto, è ormai facilissimo accedervi).

Un esempio lampante in tal senso è dato da WhatsApp Beta, versione in anteprima della popolare app di messaggistica, che ormai è utilizzata quotidianamente da una buona fetta degli utenti.

A parte WhatsApp, come detto, sono moltissime le app che offrono programmi beta e io sono il primo ad eseguire moltissime delle app (che uso quotidianamente sul mio smartphone principale) nella loro versione beta.

Le beta sono le nuove stabili (per utenti consapevoli)

Rispetto a qualche anno fa c’è molto meno timore nell’accedere ai programmi beta. Probabilmente c’è maggiore incuranza dei potenziali rischi, anche se per accedere a queste versioni “potenzialmente (e probabilmente) instabili” sfruttiamo il nostro dispositivo principale.

Il tutto, ovviamente, sperando che ad accedere al software beta siano solo i cosiddetti “utenti consapevoli”: noi “esperti” per primi, spesso e volentieri, spieghiamo come accedere ai vari programmi beta (tanto per i sistemi operativi quanto per le app) ma sottolineiamo sempre che il tutto va fatto “a vostro rischio e pericolo”, cercando di mettere in chiaro i potenziali rischi a cui lo smartphone potrebbe essere esposto.

Lo smartphone, appunto, un dispositivo che ormai fa parte di noi e che contiene al suo interno la nostra vita (e se ci fosse un problema qualsiasi, tale da mandare in brick il telefono, può essere un casino recuperare i dati): servirebbe riflettere con un pelo in più di calma e lucidità prima di fare qualcosa che potrebbe avere gravi ripercussioni.

Ma alla fine, senza battere ciglio, tutti accettiamo i termini per la partecipazione al programma beta, indossiamo la “maschera da utenti consapevoli” e ci lanciamo verso il beta testing.

La difficile scelta tra stabile e beta

Quali motivi ci spingono a volere vivere costantemente in beta?

In linea di massima, quanto scritto finora dovrebbe rispondere a questa domanda; cerchiamo, però, di tirare le fila e dare una risposta a questo quesito. Credo che i principali motivi a spingerci verso una vita costantemente in beta possano essere tre:

  1. Lato hardware, i nuovi dispositivi non sorprendono più (a causa della tecnologia che è giunta al plateau) e quindi cerchiamo di nutrirci di innovazione altrove.
  2. Da qualche anno siamo più sorpresi dalle novità software (rispetto a quelle hardware) e abbiamo quasi bisogno di sapere “ciò che sarà” prima che sia disponibile alla massa: specie nell’ultimo periodo, coi vari software che si stanno arricchendo di tutte le potenzialità legate alla intelligenza artificiale, l’hype risulta notevole.
  3. Probabilmente, nell’intera community, c’è tanta voglia di cambiamenti profondi nel modo di interagire con gli smartphone.

Esiste una cura per questa “patologia”?

La risposta a questa domanda, volutamente forzata perché non si può realmente parlare di “patologia”, è probabilmente no.

Finché le aziende continueranno a sfruttare noi utenti come beta tester (tramite app e software in anteprima o cose che risultino “stabili” solo nel nome), e quindi come parte integrante del percorso di sviluppo, questa situazione non cambierà mai.

Di conseguenza, finché noi accetteremo di vivere costantemente in beta, come se questo fosse una necessità, le cose continueranno così. In fin dei conti non è un male in senso assoluto. A volte, però, potremmo tranquillamente rallentare i ritmi per goderci le cose con calma, poco per volta.