Il blocco USA contro Huawei è uno dei temi caldi di questo 2019. L’amministrazione Trump sta facendo di tutto per tagliare fuori Huawei non solo dal mercato nazionale, ma anche da quello internazionale. Sappiamo che la FCC ritiene Huawei e ZTE un pericolo per la sicurezza nazionale, malgrado Microsoft abbia avuto il consenso per tornare a fare affari con il colosso cinese.
In mezzo a questa grandissima matassa di azioni, mosse, contromosse e strategie commerciali che valgono miliardi di dollari, arriva una nuova notizia che potrebbe avere impatti decisamente importanti per Huawei. Come sappiamo l’azienda cinese non può stringere accordi commerciali con compagnie americane né utilizzare componenti provenienti da esse.
Stessa cosa non si può dire invece per aziende fornitrici estere, quindi fuori dai confini statunitensi, che in qualche modo continuano a fare affari con Huawei. L’amministrazione americana vuole estendere il ban contro Huawei anche per tutte le compagnie estere che in qualche modo utilizzano componenti e/o software riconducibili ad aziende statunitensi.
In questo modo Huawei si ritroverebbe a dover gestire un ban molto più aspro e virtualmente senza confini. La strategia americana è quindi quella di evitare che altre compagnie possano in qualche modo permettere a Huawei di sfruttare componenti hardware con al loro interno software riconducibili ad aziende americane. È ancora abbastanza presto per capire se il governo americano sia davvero in grado di colpire realtà che operano al di fuori dei confini americani, ma sappiamo molto bene quali potrebbero essere i risvolti negativi relativi a mettersi contro l’amministrazione Trump.
Huawei dal canto suo non sembra essere stata colta di sorpresa da tutto ciò. Infatti, secondo un report di UBS and Fomalhaut Techno Solutions e del Wall Street Journal, il Huawei Mate 30 Pro e il Huawei Y9 Prime 2019 sono i primi prodotti (e non di certo gli ultimi) a non contenere un singolo componente riconducibile ad aziende americane. A seguito del ban, Huawei ha iniziato a creare canali di approvvigionamento con compagnie estere, come ad esempio l’azienda giapponese Murata per quanto riguarda i chip responsabili alla gestione della connettività del telefono, così come l’assenza dei chip di Broadcom è stata sopperita con l’utilizzo di soluzioni direttamente create da Huawei oppure la componente audio è stata rimpiazzata con soluzioni provenienti da NXP, azienda olandese.
Secondo quanto si apprende dal report, il colosso cinese ha iniziato a fare scorte di questi componenti hardware addirittura già nel 2012, ben prima che il ban entrasse effettivamente in essere. In questo lasso di tempo Huawei ha iniziato a mettere su un team di sviluppo per crearsi in casa i componenti hardware che invece richiedeva ad aziende statunitensi, in modo da arrivare al punto di essere completamente indipendente e autosufficiente.
Stessa cosa non si può dire per quanto riguarda la componente software, ovvero Android, dove la mancanza dei GMS (Google Mobile Service) di Google continuano ad essere un peso non di poco conto per il mercato internazionale. Infatti, se gli utenti cinesi sono già abituati a convivere senza le applicazioni sviluppate dall’azienda americana, stessa cosa non si può dire per gli utenti occidentali che invece acquistano smartphone Android anche e soprattutto per la presenza dei servizi Google.
E in tutto ciò cosa ne sarà del 5G? Ad oggi sappiamo che la proroga della sospensione del ban fino al febbraio 2020, permetterà agli operatori americani che operano nelle zone rurali di sostituire i propri apparati di rete continuando a sfruttare del supporto di Huawei che, nel mentre, dichiara di non essere più dipendente da soluzioni software/hardware americane per quanto lo sviluppo della connettività 5G.
Insomma, il braccio di ferro fra Huawei e il governo americano è lungi dall’essere terminato e continua a non essere ancora chiaro chi dei due incasserà la sconfitta definitiva.