Accarezzo da tempo l’idea di questo editoriale. Sarebbe finita tra le incompiute se le presentazioni di Google Pixel 4 prima e del nuovo Motorola Razr poi non mi avessero indotto a regolare il conto in sospeso con me stesso. Il tema è di quelli sensibili per un appassionato di tecnologia e di smartphone in particolare, e lo dimostra il fatto che sia uno dei più dibattuti all’interno delle piazze virtuali come il box dei commenti sotto gli articoli, il gruppo Facebook di TuttoAndroid o gli ambienti simili di altre testate che come noi trattano di tecnologia.

Fateci caso: al lancio di un nuovo dispositivo, su dieci interventi sparsi nei vari canali di discussione almeno uno riguarda l’autonomia – presunta o reale – e quasi mai è interlocutorio. È una sentenza. Al sentenziatore basta un’occhiata alla scheda tecnica, con un passaggio più lento sulla voce batteria, per scaricare le sinapsi digitando quella sinfonia di tre sillabe che evidentemente lo manda in estasi: “scaffale”.

Di solito quel numero in milliampereora – l’unità di misura della capacità di una batteria – è più che bastevole per celebrare o screditare la validità di un intero progetto. Per il sentenziatore infatti il test sul campo è sovrabbondante. Non serve provare lo smartphone o entrare nel merito della gestione dell’energia stipata in quel serbatoio che poi viene fatta dal firmware: allo scaffalista non importa minimamente se alla prova dei fatti l’interfaccia utente attinga dalla chimica della batteria come Hamilton dal serbatoio durante un giro di qualifica a Monza, oppure se consideri ogni milliampereora unico e non reintegrabile.

Lui, il sentenziatore medio, sa già se quel progetto ha ragione d’esistere a prescindere dal resto. E qualora apprendesse da una recensione o da un live batteria che un oggetto con meno di 3.000 mAh riesca a “chiudere” la giornata mediante un firmware parsimonioso, be’ alle volte si arriva persino a dubitare dell’integrità della testata e/o del recensore. Lo scaffalista accanito non si arrende mai, neppure di fronte alle evidenze.

Allora mi chiedo: non è che negli anni la questione autonomia da palloncino qual era si sia gonfiata fino ad assumere i connotati di una palla medica? Non è che la “cricca” dei tecno-maniaci, della quale per certi versi faccio parte anch’io, abbia perso contatto con la realtà?

Cosa caspita fate con lo smartphone? Davvero, scaffalisti, passate mica le giornate a vagare per la città con gli auricolari alle orecchie e gli occhi calamitati da Netflix? Confidate forse che presto o tardi, magari folgorato da uno dei tanti scaffale che disseminate sul web, un progettista tiri finalmente fuori lo smartphone dalle prestazioni mirabolanti ed una batteria capace di sopravvivere a tre o quattro giorni di streaming, navigazione, foto, video e chiamate, magari acconciando il tutto con l’avvenenza di Motorola Razr o la compattezza di Google Pixel 4?

Iperboli a parte, l’arrembare del giudizio espresso, superficiale, saccente, non ha risparmiato nessun ambito e quello della tecnologia, per fortuna, è tra i meno rilevanti a livello sociale. Però da appassionato e da addetto ai lavori non posso più nascondere la mia insofferenza verso l’isterismo da autonomia. Lungi da me voler fare filosofia, campo affascinante in merito al quale riconosco la mia aridità, ma la vita è costellata da compromessi ai quali non può sottrarsi nemmeno il settore tecnologico. Nel momento in cui un’azienda – Xiaomi, Samsung, Huawei o chicchessia – tirerà fuori lo smartphone perfetto, le proposte alternative spariranno di colpo. Come d’incanto non avranno più motivo di esistere ed in commercio rimarrà solamente lo smartphone perfetto. Ma quel momento non arriverà mai.

I progetti che non meritano una chance: i due “casi” recenti, Google Pixel 4 e Motorola Razr

Lo ripetiamo spesso nelle nostre guide all’acquisto e nelle recensioni: non esiste il prodotto migliore in assoluto, esiste il prodotto adatto a ciascuno di noi, quello i cui punti di forza rispondono a delle esigenze specifiche. Ogni soluzione partorita dall’uomo prevede dei pro e dei contro, pertanto ogni oggetto capiente si porta inevitabilmente dietro il fardello delle dimensioni. Il gioco sta nel massimizzare i pro e minimizzare i contro in base a ciò che riteniamo importante. Chi mette l’autonomia in cima alle priorità non dovrebbe neppure guardare prodotti come Google Pixel 4, che è palese la sacrifichi per la maneggevolezza. Una critica mossa alla batteria del compatto top di gamma Google è una critica sterile, perché è evidente a tutti come non sia pensato per svettare nei test di durata. Un po’ come condannare una Fiat Panda per le scarse attitudini pistaiole: sembra assurdo, ma da un po’ di tempo è la normalità.

Stessa storia, forse più rappresentativa, per il nuovo Motorola Razr. Il predecessore, l’iconico cellulare degli anni duemila, è stato “uno dei più venduti di sempre con oltre 130 milioni di esemplari” ed “al momento del lancio era il più sottile disponibile sul mercato”, ci ricorda Wikipedia. La Motorola di allora non esiste più. Lenovo ha raccolto le ceneri della divisione mobile, carezzando evidentemente per anni l’idea di regalare una seconda giovinezza ad uno dei prodotti più apprezzati di ogni epoca. Il nuovo Motorola Razr non è lo smartphone né il pieghevole più sottile di sempre, ma ha il merito indiscutibile di aver illuminato a giorno una via alternativa al piattume ideologico che ha atrofizzato il settore dagli smartphone a tutto schermo in poi.

L’ultimo decennio è stato segnato dalla rincorsa alla diagonale del display, e finora anche un’innovazione importante come quella degli schermi flessibili è stata utilizzata dai principali attori del mercato per spingere in quella direzione. Motorola ha pensato fuori dagli schemi. Badate che non è banale. Dietro gli slogan e i sorrisi delle sale stampa ci sono aziende con decine di migliaia di persone a libro paga che su bozzetti audaci come quello del Razr lavorano per anni, mettendo sul piatto cifre con parecchi zeri e una bella dose di coraggio imprenditoriale, preludi di un’attenta opera di progettazione. Dall’appassionato non ci si attende per questo apprezzamento totale, ma nemmeno la solita superficialità di giudizio. Dunque se la batteria di un progetto audace e ponderato come quello del pieghevole Motorola è risicata – appena 2.510 mAh – di sicuro non è frutto del caso, ma la risultante di vincoli progettuali stringenti attraverso i quali il nuovo Razr riesce finalmente a portare sul mercato qualcosa di diverso (e certamente di evocativo, ma questa è un’altra storia).

E se a questo punto potete immaginare l’imperturbabile verdetto dello scaffalista, mi chiedo, gli chiedo e vi chiedo: siamo sicuri che, oggi, ci serva una batteria king size? Sul serio siamo capaci di stroncare alla nascita prodotti coraggiosi come Motorola Razr o particolarmente compatti come Google Pixel 4 per il fatto che a sera potrebbero aver bisogno di un rifornimento? È realmente questo l’unico parametro di giudizio? E davvero concedere allo smartphone quella mezz’ora che basta alle ricariche rapide odierne per portare la percentuale di carica al 50% è un sacrificio intollerabile?

Esiste un mucchio di gente con un impiego sedentario che gli pone attorno prese elettriche e porte USB a iosa, e sono pronto a scommettere che tra questi ci siano parecchi scaffalisti. Ma anche i profili più dinamici oggi possono trarre vantaggio dagli ingressi USB di auto, treni e persino moto. In quali casi oggi non abbiamo una fonte energetica a portata di cavo? O magari un power bank, oppure quella ventina di euro necessaria ad acquistarne uno? Le argomentazioni legate alla scomodità di portarsi dietro un pacco batterie e relativo cavetto, o all’usura dell’ingresso USB per i più meticolosi, hanno le ore scandite dalla ricarica wireless, destinata a spiccare il volo pur con tempistiche anomale per l’esuberante universo tecnologico. Un pad wireless costa una decina di euro e comunque ormai lo si trova un po’ ovunque: negli abitacoli delle vetture moderne, sui tavoli di Starbucks o sulla prossima scrivania che acquisterete da Ikea.

Fare un passo indietro per farne due in avanti

Da un anno a questa parte a farmi compagnia durante le giornate c’è un Google Pixel 2 XL. Lo amo, ma se dovessi fargli una critica non tentennerei un attimo: l’ingombro. Per diversi mesi ho stemperato il disagio lasciando il Pixel Case nel cassetto, fino a quando un incontro col pavimento mi ha costretto a riesumarlo per il timore che altri eventi simili potessero incoraggiare quella minacciosa linea sul display con cui, mio malgrado, devo convivere.

Il Pixel Case è realizzato con cura e impreziosisce l’aspetto dello smartphone, oltre a proteggerlo. Di contro lo trasforma in un mattone viscido pressoché inutilizzabile con una sola mano nonostante la mia sia ampia. Anch’io sono stato “in fissa” con le ore di schermo e un po’ lo sono tutt’ora, ma se dovessi sostituirlo adesso non tentennerei davanti ad un Pixel 4 e un Pixel 4 XL. Prenderei senz’altro il primo, malgrado la batteria da 2.800 mAh sulla quale ne ho lette – e ne avrete lette – di cotte e di crude.

Ne guadagnerei in lunghezza, larghezza e peso sacrificando 0,3 pollici di display ed un paio d’ore di schermo attivo, rinunce che ritengo più che accettabili a fronte di un prodotto da tenere comodamente in tasca e che finirei per utilizzare come un oggetto mobile per davvero, senza essere obbligato a fare a meno di una cover fino al primo incidente di percorso. Quasi non ricordo più la sensazione di avere un compagno di avventure dalla presenza discreta.

L’ossessione per l’autonomia, dunque, ha delle basi solide, reali? E nell’ottica di agguantare il miglior compromesso, quanto siamo disposti a barattare qualche attenzione in più alla percentuale di carica con dimensioni e peso inferiori, che si traducono in una maggiore piacevolezza d’uso? Ho la sensazione che una problematica reale e comprensibile come quella per l’autonomia abbia ormai perso consistenza. Mi sembra sia sfuggita letteralmente di mano ad alcuni tra gli appassionati che ci leggono, a chi popola forum, gruppi e piazze virtuali, senza dimenticare noi addetti ai lavori.

Ai tempi di Samsung Galaxy S6 e compagnia, nel 2015, power bank, pad e ricariche wireless inverse, ingressi USB e via dicendo non avevano la diffusione odierna e men che meno quella di domani. Allora ci siamo lasciati sedurre dalle spiccate doti multimediali dei phablet e dalle loro batterie, senza avere piena contezza dello scotto da pagare in termini di dimensioni e immediatezza d’uso. Nel frattempo però il mondo attorno agli smartphone si è evoluto e adesso abbondano le soluzioni per dribblare le problematiche passate. Ce ne siamo accorti?

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