Con una “tacca” meno cicciotta, qualche gigabyte di RAM in più e due fotocamere dietro staremmo parlando d’altro. Quindi, da dove e perché nasce uno dei progetti più controversi di sempre?
La risposta è e resterà confinata nei corridoi del Googleplex, per cui oggi posso solo stimolarvi a riflettere su una delle possibili chiavi di lettura.

Samsung affonda radici solide nel settore mobile e basa una parte considerevole del proprio business su display, microprocessori, memorie e quant’altro. I Galaxy, da anni, sono l’eccellente vetrina di quei pregiatissimi manufatti. Huawei si è risvegliata dal torpore solo un anno fa con Mate 10 Pro e adesso sta cercando di farsi un nome nella fascia premium a suon di schede tecniche pazzesche (vedi Mate 20 Pro).

Scorrendo gli ultimi bilanci delle due aziende, issate ad esempio perché insieme ad Apple conducono il settore, affiora come il gruppo Huawei abbia chiuso l’ultimo anno fiscale con un fatturato da 87 miliardi di dollari, ma proprio come Samsung, che di dollari ne ha movimentati la bellezza di 213 miliardi, non produce solo telefoni. Al 31 dicembre dello scorso anno il “numerino” di fianco ad Alphabet, la controllante di Google, parlava di 111 miliardi di dollari, a fronte di un flusso proveniente dalla divisione smartphone che gli analisti di Morgan Stanley stimavano in 3,8 miliardi di dollari. Sapete quanto frutta lo stesso business a Samsung e a Huawei-Honor? Rispettivamente 94,7 e 36,4 miliardi di dollari (dati ufficiali).

Rimaneggiando le cifre, vien fuori come gli smartphone incidano nel fatturato di Samsung per il 44,5%, in quello del gruppo Huawei per il 41,8% ed in quello di Alphabet per il 3,4%.

La comparazione tra percentuali affibbia una dimensione numerica a un’evidenza: Google non vive di smartphone.

Televisori, auto, computer, tablet, smartphone di ogni epoca e fascia di prezzo, smartphone di Samsung, di Huawei, di Apple, e più in genere un qualunque aggeggio connesso ad internet porta acqua al mulino di Google.

A Mountain View vivono di software e di servizi, per cui possono concedersi il lusso di approcciare gli smartphone come Ferrari i propri orologi, di considerare un diversivo quella che per altri è una concreta opportunità di guadagno.

Come fare dei Pixel una passerella perfetta per gli ingegneri informatici, la magnificazione del core business aziendale? Semplice: assemblando un pacchetto hardware che abbia l’unico obiettivo di esaltare l’esperienza d’uso e che non tolga applausi al vero protagonista, sua maestà il software.
Ecco quindi un notch sgraziato che circoscrive elementi invisibili alla concorrenza – affannata com’è a limare cornici – come la generosa capsula auricolare che insieme all’altoparlante sul grosso chin – il “mento” sotto lo schermo – contribuisce al miglior audio stereo del panorama attuale, e come l’esclusivo obiettivo grandangolare che regala grande flessibilità agli autoscatti.
Ecco dunque gli anacronistici quattro gigabyte di RAM, messi lì a rimarcare l’importanza di un’interfaccia ottimizzata e minimalista, capace di accrescere la qualità dell’esperienza utente con intelligenza artificiale e machine learning. Un firmware smart, che serva in modo proattivo i bisogni di chi ne fa uso senza stordirlo con funzioni dubbie da configurare. L’Android-semi-stock dei Pixel sgrava l’utente dal pensiero di dover gestire qualcosa. Non delega nulla. Agisce nel silenzio.
Ecco infine l’unica fotocamera posteriore, grossomodo la stessa di Pixel 2 XL, la cui ratio è sintetizzata in maniera sublime dal Super Res Zoom: siamo sicuri che nell’era delle fotocamere a gogo l’adozione di un teleobiettivo, che avrebbe garantito risultati certamente migliori di uno zoom digitale, avrebbe richiesto maggiori risorse economiche e progettuali? Penso sinceramente di no, ma non sarebbe stato un elemento adeguato a dimostrare che tramite un certosino lavoro software anche una sola fotocamera può essere indifferente allo scorrere del tempo, e può permettere ai nuovi Pixel di lasciarsi ancora una volta alle spalle parecchi dei flagship recenti in molte condizioni.

Google è andata in direzione opposta a quella dei concorrenti. Volutamente. Pixel 3 e in modo più sfacciato Pixel 3 XL sono i vettori a cui Google ha affidato il proprio messaggio: con l’hardware e l’estetica delle contraddizioni nessun nome illustre avrebbe piazzato una sola unità, men che mai a mille euro. Tuttavia sia pure una manciata di consumatori sceglierà un Pixel esclusivamente per l’esperienza d’utilizzo di cui è stato fatto garante. Ne verrà fuori giusto il numero necessario a rimpolpare il narcisismo di Google, intenta a dimostrare e a dimostrarsi che su quello che conta davvero, sull’unico aspetto capace di spostare gli equilibri, sull’esperienza utente, non c’è competizione.

Pixel 3 e Pixel 3 XL sono i primi, veri, smartphone di Google.

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