È da lunghissimo tempo che Oracle e Google si affrontano nelle aule dei tribunali in una storia infinita di accuse, difese, controaccuse, colpi di scena. La parola “fine” è stata però posta sull’aspetto brevettuale della faccenda, almeno per il primo grado di giudizio. La giuria ha infatti emesso il proprio verdetto: Google non ha violato alcun brevetto di Oracle con Android. Ciò significa che Oracle non potrà avanzare richieste di danni che si fondino sui brevetti, e che l’unica – e più grande – preoccupazione per Google sarà la violazione del copyright. È stato necessario molto tempo per arrivare fin qui, con la giuria che ha continuato a porre domande tecniche ad entrambe le parti e ha dovuto riunirsi per quasi una settimana prima di arrivare ad un giudizio. Il giudice William Alsup ha affermato che questo “è il più lungo processo civile che abbia mai presieduto”.

Normalmente, quando una parte viene trovata in violazione di un brevetto, la discussione in aula ed il verdetto vengono seguiti da una fase in cui si calcolano i danni. Tale fase verrà saltata “a piè pari” in questo caso, visto che Google non ha violato i brevetti di Oracle. Ciò non toglie, come già detto, che Google non possa per questo dormire sonni tranquilli: la più grande questione è relativa al copyright ed alle accuse lanciate da Oracle in merito. La domanda principale a cui si dovrà rispondere è se si possa qualificare come “fair use” – ovvero l’utilizzo di materiale protetto da copyright di altri in opere proprie – la violazione di Google del copyright sulla SSO (struttura, sequenza e organizzazione) di 37 API di Java.

Prima di procedere con altro, è necessario definire cosa sia il “fair use”. Con tale espressione si indica un concetto, originario della legislazione statunitense, che vuole che sia possibile utilizzare del materiale protetto da copyright detenuto da terzi in opere proprie. Tale possibilità è però strettamente limitata ad ambiti ben specifici e a condizioni molto precise. Anche se una condizione elencata qui sotto fosse verificata, non verrebbe del tutto esclusa la possibile violazione e sarebbe, in ogni caso, da determinare caso per caso quale sia la soluzione più adeguata. Le quattro condizioni perchè si possa determinare il fair use sono (origine: Wikipedia):

  1. L’oggetto e la natura dell’uso, in particolare se ha natura commerciale oppure didattico e senza scopo lucrativo.
  2. La natura dell’opera protetta.
  3. La quantità e l’importanza della parte utilizzata in rapporto all’insieme dell’opera protetta.
  4. Le conseguenze di questo uso sul mercato potenziale o sul valore dell’opera protetta.

Il terzo punto è particolarmente importante: si tratta di poche righe di codice su oltre 15 milioni totali presenti in Android. D’altro canto, però, si tratta di codice essenziale senza il quale non sarebbe possibile utilizzare Android: le API sono necessarie per interagire con il sistema e, senza di esse, si potrebbe fare ben poco – come affermato da Mark Reinhold, “Beh, se non ci fossero API, avremmo solo un linguaggio. Saresti in grado di scrivere calcoli basilari che non fanno nessun IO, non hanno alcuna comunicazione con il resto del mondo o con la piattaforma sottostante. Potresti scrivere – sai, potresti fare calcoli su numeri e stringhe e generarli, ma non saresti in grado di farci nulla.” Per questo motivo le API ricoprono un ruolo fondamentale.

La giuria non ha saputo definire se la SSO delle API sia proteggibile dal copyright, nè ha saputo definire se l’utilizzo di Google possa rientrare nel fair use. A questo punto si apre un bivio: se il giudice affermasse che la SSO è proteggibile dal copyright, allora Oracle potrebbe “staccare” questa parte dal processo per iniziarne uno nuovo apposito e ottenere un pagamento molto alto nel caso in cui anche in questo nuovo processo si giungesse alla stessa conclusione del primo; se il giudice affermasse che non è possibile registrare il copyright per la SSO, allora Oracle si troverebbe nella difficile situazione di poter chiedere 150’000 dollari per infrazione – e ha a disposizione solo due infrazioni molto piccole che riguardano la copia delle 9 linee della funzione rangeCheck e di otto file di Java decompilati. Nel secondo caso, un appello sarebbe fuori discussione: Oracle era partita da richieste di 6 miliardi di dollari, non si accontenterà di 300’000 dollari.

L’appello ci sarà in ogni caso, visto che Oracle è assetata di sangue – o, meglio, vuole la moneta sonante – e non otterrà mai il risultato sperato da questo processo, come è evidente dalle dichiarazioni rilasciate dai due colossi.

Oracle:

Oracle presented overwhelming evidence at trial that Google knew it would fragment and damage Java. We plan to continue to defend and uphold Java’s core write once run anywhere principle and ensure it is protected for the nine million Java developers and the community that depend on Java compatibility.

Oracle ha presentato prove schiaccianti durante il processo riguardo il fatto che Google sapeva che avrebbe frammentato e danneggiato Java. Pianifichiamo di continuare a difendere e sostenere il principio base di Java “scrivilo uno volta, fallo girare dovunque” e di assicurarci che sia protetto per i nove milioni di sviluppatori Java e per la comunità che dipende dalla compatibilità di Java.

Google:

Today’s jury verdict that Android does not infringe Oracle’s patents was a victory not just for Google but the entire Android ecosystem.

Il verdetto della giuria di oggi che Android non viola i brevetti di Oracle è stato una vittoria non solo per Google ma per l’intero ecosistema Android.

Oracle vorrebbe che Google venisse definita brutta e cattiva e che si decidesse a suo favore, ma è evidente che le cose non sono così semplici.