Alphabet è sicuramente l’ultimo nome a cui avrei pensato per una società che si occupa di tecnologia (in senso stretto, ma anche in senso lato). Ed è anche l’ultima cosa che mi sarei aspettato da quei due geni un po’ pazzoidi di Larry Page e Sergey Brin, fondatori di Google. Ma cos’è Alphabet e perché è stato deciso di fondarla? Perché spezzettare una delle più forti aziende tecnologiche del pianeta? La risposta è che, a volte, dividere è essenziale per unire – e divide et impera in questo caso è più che azzeccato.

Partiamo dall’inizio: Alphabet è la nuova società che ingloba Google e tutta la costellazione di aziende e realtà che finora sono ricadute sotto il cappello di Google, annunciata solo pochi giorni fa. In buona sostanza, Alphabet rimpiazza Google come entità principale, diventando di fatto la capostipite di tutte le società finora collegate alla seconda. Google non scomparirà, ma rimarrà una società a sé stante detenuta al 100% da Alphabet. Si tratta quindi di un nome non destinato ad essere conosciuto dai consumatori, ma di una manovra più finanziario-burocratica.

Il fine di questa manovra è, per quanto paradossale possa sembrare ad un primo sguardo, di dare maggiore vitalità ed indipendenza a Google, alle sue branche e a tutte le società terze ad essa collegate. Come è possibile questo? Passiamo per un esempio: immaginate di essere degli sviluppatori di software che devono non soltanto portare avanti lo sviluppo, ma anche badare alla burocrazia, occuparsi di pubblicizzare il proprio lavoro sul Web, parlare con i clienti e gestire un bar. Tutto insieme. E oltre a tutto questo, dovete anche tenere d’occhio il lavoro di tutti i colleghi e fare per loro le stesse cose che fate per voi. Potete essere bravi quanto volete, ma il lavoro non sarà ottimale: una figura che si occupi di tutto quello che non riguarda direttamente il vostro lavoro potrebbe fare molto meglio. Lo stesso accade con Alphabet, che fa le veci della figura specializzata nell’esempio.

La nuova società non si occuperà infatti di sviluppare prodotti, ma soltanto di fare da ombrello sotto cui tutte le altre società si potranno riparare. Servirà per separare da Google tutte quelle società che non rientrano nel core business di quest’ultima e per permettere loro uno sviluppo più indipendente. Ecco quindi che realtà come YouTube, Nest, Google Auto, gli X Labs e così via potranno avere maggiore libertà in quanto saranno più slegate da Google e potranno portare avanti più liberamente i propri progetti. Questo avviene perché, come dichiarato da Page, i risultati finanziari saranno divisi in due: da un lato Google, che continuerà ad avere una sua voce a parte come avvenuto finora, dall’altra l’insieme di tutte le altre società in una somma generale, che non permetterà di distinguere le singole voci.

È proprio questo l’aspetto più positivo di questa manovra: raccogliendo sotto un’unica voce tutte le realtà non-Google, Alphabet potrà “coprire” le società in perdita con i profitti delle società che vanno bene. Se questo vi sembra negativo, pensate a cose come le auto autonome che si guidano da sole, le lenti a contatto che rilevano i livelli di glucosio nel sangue e tutti gli altri progetti a lungo termine: al momento non danno frutti perché sono ancora in sviluppo e gli azionisti, assetati di danaro del tipo “ora e subito”, potrebbero volere la loro chiusura non guardando al lungo periodo; con questo escamotage, però, Page e Brin assicurano che anche le realtà ancora nella culla abbiano la possibilità di svilupparsi e non vengano date in pasto agli azionisti-squali (metaforicamente parlando, s’intende).

Cosa cambia quindi nel mondo Google? Non è facile fornire una risposta a questa domanda: potrebbe cambiare molto, visto anche che Sundar Pichai è ora a capo di Google, ma potrebbe anche non cambiare nulla – almeno nel breve periodo e per quanto riguarda quello che interessa noi utenti e appassionati. Per quanto riguarda Android infatti non dovrebbero esserci grandi cambiamenti nell’immediato, ma i frutti potrebbero arrivare con il tempo: una Google più leggera e “snella” potrebbe avere più facilità a correggere alcune criticità del sistema operativo mobile e a portare nuove funzionalità e caratteristiche. Parlando di questo argomento, però, si sfocia nella speculazione.

Ciò che ci interessa è che ora Google dovrebbe avere più margini di movimento e questo dovrebbe portare a miglioramenti per noi utenti nei servizi e nell’esperienza d’uso – e se non fosse così allora Alphabet sarebbe totalmente inutile per noi consumatori – almeno nel breve termine. Tra i problemi che speriamo vengano affrontati (e, magari, risolti) troviamo il sempiterno problema della frammentazione di Android, che da tempo immemore affligge i dispositivi con il robottino verde.

Ma non è tutto qui. Ciò che è più importante è ciò che si vede meno. Tra queste cose faccio rientrare anche elementi non propriamente tecnologici, ma ugualmente importanti: per quanto Siva Vaidhyanathan abbia ragione nel suo bellissimo saggio “La grande G“, Google riveste un’importanza capitale nella nostra epoca e, soprattutto, riveste il ruolo di portatore della speranza e di centro delle fantasie di molti – nerd e non. Questo avviene perché la società di Mountain View è stata in grado di affermarsi nel tempo come forza propositrice e risolutrice di problemi di vario genere, sempre in un modo che è considerabile come quasi ottimale. L’approccio ingegneristico della società ha portato anche a grandi fallimenti e a grandi problemi, ma i dati positivi sono decisamente maggiori dei dati negativi ed è questo quel che importa. Soprattutto, Google ha saputo imporsi come realtà “benigna”, pur essendo un’azienda come tutte le altre che vuole – giustamente – il profitto e il proprio tornaconto, grazie ad un approccio “positivo” alle cose, ai problemi e ai suoi utenti.

Ecco quindi che questa piccola rivoluzione va in due direzioni quasi opposte: da un lato dimostra che, in un certo senso, Google è un’azienda come le altre, perché si presta a questi “giochini” burocratico-finanziari; dall’altro, invece, dimostra ancora una volta come questi servano per portare avanti i suoi scopi e portare avanti l’innovazione per il gusto dell’innovazione (o quasi, visto che i risvolti economici sono sempre presenti) e non per essere come tutti gli altri.

Cosa farà e, soprattutto, cosa rappresenterà Alphabet in futuro? Difficile a dirsi. Ma ciò che credo sia condivisibile da tutti è che, ancora una volta, Sergey Brin e Larry Page dimostrano che Google mantiene fede alla sua promessa iniziale: “Google non è un’azienda come le altre e non vuole diventarlo”. Una promessa non da poco che, finora, non sembra essere stata infranta – o non del tutto. La speranza per il futuro che voglio esprimere è che ora si torni ai fasti dell’epoca Schmidt, quando Google era davvero un’azienda che rispettava il suo motto “don’t be evil” (o quantomeno ci provava) e che si muoveva in maniera totalmente diversa dalle altre. L’altra speranza che voglio esprimere è che Google, e Alphabet di conseguenza, si renda conto che il suo potere è già immenso e vicino a quello di aziende gigantesche in tanti romanzi distopici di fantascienza: da grandi poteri derivano grandi responsabilità, citando Stan Lee per bocca di Ben Parker, ed è il caso che un’azienda ormai quasi maggiorenne se ne renda conto e si comporti di conseguenza, per il bene di tutti.