Negli ultimi anni, il dominio di Google nel panorama tecnologico globale è diventato talmente pervasivo da sembrare quasi naturale: dal motore di ricerca originario, semplice e dall’interfaccia essenziale, a una galassia di prodotti e servizi che spaziano dai browser agli smartphone, dall’advertising all’intelligenza artificiale.

Tuttavia, questa espansione senza freni ha attirato su di sé l’attenzione (e ora anche la stretta) delle autorità antitrust statunitensi e la posta in gioco, stavolta, è altissima, il browser Google Chrome potrebbe finire per essere venduto a una terza parte.

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Il processo antitrust e la proposta di vendere Google Chrome

La causa antitrust in corso contro Google negli Stati Uniti ha raggiunto un nuovo punto critico nei giorni scorsi, quando il giudice federale Amit P. Mehta ha aperto all’ipotesi di una cessione forzata di alcune divisioni strategiche di Google; secondo quanto riportato dal New York Times, il Dipartimento di Giustizia USA ha suggerito apertamente che il browser Chrome, attualmente il più utilizzato al mondo, dovrebbe essere la prima “vittima sacrificale” per ridurre il dominio dell’azienda nel settore della ricerca online.

Come spiegato dall’avvocato del Dipartimento di Giustizia David Dahlquist, “Chrome è un importante punto di accesso alla ricerca“, miliardi di dollari in entrate pubblicitarie transitano proprio attraverso il browser; da qui l’idea: vendere Chrome consentirebbe ad altri competitor di accedere a una mole significativa di query e di utenti, riequilibrando almeno in parte il mercato.

Il giudice Mehta sembra essere ricettivo rispetto a questa prospettiva, ma la battaglia legale è tutt’altro che conclusa, sono previste almeno tre settimane di discussione prima che Google possa presentare le sue contro-argomentazioni.

La risposta di Google

La reazione di Google, o meglio di Alphabet, la holding che controlla il colosso di Mountain View, non si è fatta attendere. In un post pubblicato sul proprio blog ufficiale l’azienda ha contestato punto per punto la recente sentenza della giudice Leonie Brinkema, che ha stabilito una violazione delle leggi antitrust nel settore dell’ad-tech, e ha espresso forte preoccupazione per le implicazioni delle proposte avanzate dal governo.

In particolare, Google sostiene che una simile decisione finirebbe per penalizzare non solo l’azienda, ma anche i consumatori e l’intero ecosistema digitale statunitense; le argomentazioni sono molteplici:

  • Accesso ai motori di ricerca -> la sentenza costringerebbe browser e smartphone a proporre motori di ricerca alternativi (come Bing o Yahoo!) al posto di Google Search, ostacolando l’esperienza degli utenti che, secondo Big G, scelgono Google per la sua qualità, non per obbligo.
  • Accordi con altri browser -> verrebbero vietati gli accordi con aziende come Mozilla, che attualmente riceve compensi per mantenere Google come motore di ricerca predefinito; senza queste entrate, i browser alternativi potrebbero iniziare a chiedere un pagamento diretto agli utenti.
  • Privacy e sicurezza -> la cessione di Chrome o la separazione da Android comporterebbe la condivisione di dati sensibili con aziende terze, con rischi concreti per la tutela della privacy.
  • Sviluppo tecnologico -> secondo Google, imporre barriere all’integrazione tra i propri servizi limiterebbe lo sviluppo dell’intelligenza artificiale e affiderebbe la governance tecnica dei prodotti a comitati governativi.

Anche Android nel mirino del Dipartimento di Giustizia USA

Se la cessione di Chrome rappresenta un’ipotesi forte, quella riguardante Android sarebbe ancora più traumatica: il Dipartimento di Giustizia infatti, non esclude di forzare Google a separare Android da Search e dal Play Store, o addirittura a vendere il sistema operativo stesso, oggi utilizzato da miliardi di dispositivi in tutto il mondo.

Uno scenario del genere avrebbe ripercussioni incalcolabili sul settore mobile, sulla frammentazione dell’ecosistema Android e sull’interoperabilità dei servizi Google, senza considerare le implicazioni economiche per i produttori che dipendono dalla piattaforma per distribuire i propri dispositivi.

I prossimi passi

Il nuovo processo antitrust contro Google è ufficialmente cominciato il 21 aprile e si prevede che durerà diverse settimane, le conseguenze, in caso di sentenza sfavorevole, sarebbero epocali; non si tratterebbe infatti solo di una multa o di un richiamo formale, ma di una vera e propria ristrutturazione forzata del gigante tecnologico.

Come spesso accade in questi casi, la questione non riguarda soltanto le regole del mercato, ma anche il futuro dell’innovazione, il ruolo delle big tech nella società digitale, nonché la libertà di scelta degli utenti. Google dal canto suo, ha già annunciato che farà ricorso e cercherà di mitigare gli effetti della sentenza, ma l’impressione è che siamo davanti a uno dei casi antitrust più importanti dell’era moderna, con potenziali ripercussioni su tutta l’industria tech.

Dovremo dunque attendere ancora per capire se, nel prossimo futuro, continueremo a navigare su Chrome con la certezza che tutto rimanga com’è oggi, o se invece dovremo abituarci a un web frammentato, con Google costretta a cedere pezzi della propria identità tecnologica per rispettare nuove regole del gioco.