Come alcuni di voi potrebbero aver notato, nelle ultime ore l’attenzione dei media si è concentrata su una notizia di portata storica che potrebbe, a conti fatti, ridisegnare gli equilibri del web come lo conosciamo: stiamo parlando della sentenza del giudice Amit Mehta nel caso antitrust che vede protagonista Google, un verdetto atteso da tempo che ha finalmente stabilito quali saranno le misure che il gigante della ricerca dovrà implementare per porre fine al suo monopolio illegale. Una decisione che, pur non stravolgendo il servizio in modo radicale, introduce delle novità significative che meritano senza dubbio un’analisi più approfondita.

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Cosa stabilisce la sentenza del caso antitrust contro Google

Innanzitutto è bene precisare che la sentenza, pur riconoscendo la posizione dominante di Google e la violazione dello Sherman Antitrust Act, ha rigettato alcune delle richieste più ambiziose avanzate dal Dipartimento di Giustizia; in particolare, e questo è un punto cruciale, il giudice Mehta ha stabilito che Google non dovrà vendere il suo browser Chrome.

Molti di voi sicuramente ricorderanno come il Dipartimento di Giustizia avesse proposto questa soluzione, ritenendo Chrome un punto di accesso chiave per il monopolio; tuttavia, come spiegato nelle 230 pagine della sentenza, una mossa del genere sarebbe stata incredibilmente caotica e altamente rischiosa, con il serio pericolo di un sostanziale degrado del prodotto e una perdita di benessere per i consumatori. Insomma, un intervento così drastico avrebbe potuto fare più male che bene, aspetto che ovviamente non può essere ignorato.

Ma attenzione, questo non significa che Google l’abbia fatta franca, al contrario, la sentenza impone delle misure che seppur meno eclatanti potrebbero avere un impatto tangibile sulla concorrenza, e di riflesso anche sull’esperienza degli utenti. Il giudice ha infatti ordinato a Google di condividere con i rivali alcune preziose informazioni di ricerca, tanto per fare qualche esempio un sottoinsieme di dati e segnali di query, che potranno essere acquistati a un costo marginale (una sola volta) per dare una spinta competitiva a motori di ricerca più piccoli.

È una soluzione, per usare le parole del giudice stesso, che mira a compensare il fatto che al colosso di Mountain View sia ancora concesso di pagare i partner di distribuzione (come Apple o Mozilla) per impostare i propri prodotti come predefiniti, un’altra richiesta del Dipartimento di Giustizia che non è stata accolta.

A tal proposito, la decisione di consentire a Google di continuare a pagare per la distribuzione predefinita dei suoi servizi è un altro punto di dibattito; se da un lato, come ha sottolineato il giudice, un divieto di questi pagamenti avrebbe potuto danneggiare i produttori di telefoni e i gestori di browser come Mozilla e Apple (che si erano espresse a favore del mantenimento di questi accordi), dall’altro si corre il rischio di perpetrare una sorta di status quo che, ovviamente, penalizza i concorrenti.

Tuttavia, la sentenza ha anche impedito a Google di concludere accordi esclusivi per la distribuzione dei suoi prodotti in modi che potrebbero ostacolare la concorrenza, un dettaglio che nel complesso introduce un barlume di speranza per un futuro più equilibrato.

In questo intricato panorama è impossibile non menzionare l’elefante nella stanza, ovvero l’intelligenza artificiale; sebbene la causa sia iniziata prima del boom dell’IA generativa, il giudice Mehta ha tenuto conto del ruolo che questa tecnologia avrà nel futuro della ricerca. La sentenza cerca di porre le basi per evitare che le pratiche anticoncorrenziali di Google nella ricerca si replichino nelle sue offerte di IA; se da un lato, come sostenuto dal Dipartimento di Giustizia, la sentenza è una vittoria, dall’altro c’è chi come Gabriel Weinberg di DuckDuckGo ritiene che Google potrà comunque continuare a utilizzare il proprio monopolio per frenare i concorrenti, anche nella ricerca basata sull’intelligenza artificiale.

In seguito all’emissione della sentenza Google può ora presentare ricorso contro il verdetto di fondo che l’ha dichiarata monopolista illegale, questo significa che bisognerà attendere prima che queste misure diventino operative, se mai lo saranno; il caso potrebbe arrivare fino alla Corte Suprema, e le prospettive future restano al momento incerte.

L’azienda di Mountain View sta affrontando un periodo di forti turbolenze legali, oltre a questo caso Google è stata recentemente colpita da un verdetto a favore di Epic Games nella causa antitrust sul suo app store e da un’altra sentenza che la dichiara monopolista nel mercato degli strumenti pubblicitari.

Tutto questo suggerisce che la forma attuale dell’azienda potrebbe non durare ancora a lungo, bisognerà attendere per scoprire se questo cambiamento si tradurrà in un’esperienza utente migliore, con servizi più competitivi e innovativi.