Per spiare una persona, ieri, ci si doveva affidare ad un investigatore privato. Immaginate adesso che questa figura professionale non fosse molto brava a secretare le scoperte, e talvolta durante l’assemblaggio dei report per i clienti parlasse qua e là delle abitudini di questo e di quell’altro obiettivo.

Al di là del giudizio sull’eticità del lavoro, non dev’essere stato un grande esempio di professionalità. Bene: spostate l’esempio alla nostra era, quella in cui per spiare una persona non serve un detective ma è sufficiente un’applicazione per smartphone.

Le conseguenze sulla privacy possono essere decisamente più pesanti poiché le informazioni “digitali” possono rimbalzare con velocità inaccessibili al passaparola di qualche anno fa. È quello che è accaduto alla società SpyHuman, presa di mira da un hacker rimasto anonimo. L’informatico è riuscito a carpire dai server aziendali ben 440 milioni di dati con relativa semplicità.

“Queste app-spia dovrebbero essere bandite. Il più delle volte sottraggono dati sensibili a donne, ragazze, quando nessuno ha il diritto di farlo. Peraltro queste app sono fonti di denaro inesauribili per le aziende che fanno business in questo modo”, ha detto l’hacker spiegando il suo gesto e condannando fermamente l’operato di aziende come SpyHuman.