I dati custoditi in piattaforme come Fitbit o Clue rappresentano per i ricercatori un tesoro scientifico, un prezioso forziere con il quale affiancare o sostituire le prassi tradizionali di parecchi studi scientifici. Tuttavia, tra i numerosi vantaggi, ci sono delle questioni in sospeso da affrontare, di tipo logistico e di tipo etico.

Lo hanno confessato Ida Sim, director of digital health del reparto di medicina interna dell’Università della California, e Olivia Walch, che all’Università del Michigan si occupa di matematica e ritmi circadiani, in una lunga chiacchierata con i colleghi di theverge.com.

Tra i vantaggi rispetto ai metodi tradizionali c’è la maggiore attrattiva che app e tracker commerciali esercitano nei confronti delle persone rispetto agli hardware ed ai software normalmente utilizzati per le campagne di ricerca. Un “kit” più familiare può essere utilizzato dagli utenti più a lungo e con maggiore naturalezza rispetto a degli oggetti sì più precisi ma parecchio meno gradevoli e sfruttabili, che spesso già nel medio termine finiscono con lo stancare chi si è proposto di utilizzarli.

A differenza di quanto si potrebbe pensare, la bassa accuratezza che i sistemi commerciali scontano nei confronti dei sistemi di rilevazione utilizzati in medicina per condurre i test sui campioni di volontari, non sarebbe un problema insormontabile. “È solamente un aspetto di cui essere consapevole”, come del resto possono essere inaccurate le informazioni fornite dalle persone che partecipano a test e sondaggi.

I limiti semmai sono altri, come i differenti algoritmi delle diverse applicazioni che sgrezzano i dati provenienti dai sensori. “Un Fitbit, ad esempio, fornisce delle informazioni sulle ore di sonno profondo registrate in una notte tacendo sul metodo utilizzato per partorire il dato. Questo renderebbe difficile il confronto tra risultati provenienti da tracker differenti. Un’app quantificano il sonno profondo in un modo e un’altra in un modo diverso, ma entrambe chiamano il dato alla stessa maniera”. La situazione, da questo punto di vista, pare però convergere su degli standard comuni che diano uniformità ai dati e dunque li rendano confrontabili.

Al di là dei limiti in via di risoluzione, gli ostacoli maggiori paiono essere quelli legati alla condivisione dei dati con gli istituiti di ricerca e più in genere quelli connessi all’etica ed alla privacy. I ricercatori hanno già individuato la principale problematica di natura etica che potrebbe essere sollevata, nonostante basterebbe banalmente adeguare i termini di servizio per rendere legale il travaso alla scienza dei dati: fino a che punto sarebbe significativo il consenso fornito dagli utenti, che spesso accettano i termini senza prestare la necessaria attenzione?

“Le app dovrebbero informare a dovere gli utenti sul percorso seguito delle loro informazioni. Ciò che potrebbe essere corretto per te, potrebbe non esserlo per me. Ad esempio potrei non essere d’accordo sul fatto che i miei dati siano utilizzati per la ricerca sulla salute mentale” dice Barbara Prainsack, esperta di etica e politica sanitaria all’Università di Vienna. La sensazione tuttavia è che gli ostacoli verranno superati. “Abbiamo un potenziale reale da sfruttare. Stiamo avanzando lentamente verso l’obiettivo”, chiosa Walch.