Al termine di un processo durato 10 settimane presso il tribunale distrettuale di Washington e dopo ulteriori 2 giorni di arringhe lo scorso mese di maggio, il giudice Amit Mehta ha stabilito che Google ha violato le leggi antitrust statunitensi gestendo un monopolio con le sue attività di ricerca e pubblicità testuale. Il giudice Mehta ha dunque stabilito che Google ha reso difficile la concorrenza nel mercato della ricerca, violando la sezione 2 dello Sherman Act.

Durante il processo è emerso che Apple riceve una quota del 36% delle entrate pubblicitarie generate da Safari e che nel 2022 la società di Cupertino ha ricevuto 20 miliardi di dollari da Google per essere il motore di ricerca predefinito di Safari. Il giudice Mehta ha così osservato che l’entità degli assegni versati da Google ad Apple era tale da limitare fortemente il numero di aziende che potevano competere con Google per diventare il motore di ricerca predefinito di Safari.

Oltre ad Apple, peraltro, Google ha stretto accordi simili con altri sviluppatori di browser come Mozilla, noto per il suo browser Firefox, e con produttori di smartphone come Samsung: accordi che, secondo il giudizio federale, fanno di Google il motore di ricerca predefinito sui loro prodotti e su quelli di Apple e che alimenterebbero una posizione di sostanziale monopolio.

Dal suo canto, Google si è difeso affermando che il motivo per cui Google Search domina il mercato della ricerca è che si tratta di un prodotto superiore e più apprezzato dai consumatori. L’azienda ha poi sostenuto che la sua attività di ricerca dovrebbe essere paragonata a quella di aziende più grandi che dispongono di uno strumento di ricerca, anche se questo strumento non effettua ricerche sul web, riferendosi evidentemente ad Amazon.

In attesa di capire che cosa potrebbe cambiare per Google, gli occhi sono puntati per quel che avverrà il prossimo 9 settembre, quando in Virginia inizierà un nuovo processo: il Dipartimento di Giustizia sostiene infatti che Google avrebbe monopolizzato anche il settore della pubblicità digitale aumentando i propri profitti per sé, e i costi per gli inserzionisti.