La vittoria di Xiaomi nell’azione legale che la vede contrapposta al governo USA potrebbe fare da apripista a una nuova serie di cause intentate da compagnie cinesi sottoposte alle medesime restrizioni dal governo Trump nei mesi scorsi. È quanto afferma Reuters che ha ricevuto le informazioni da alcuni legali che seguono da vicino la vicenda.

Motivazioni ridicole per il ban

Alcune delle compagnie cinesi coinvolte nei tanti ban emessi dal governo Trump si sono rivolte ad alcuni studi legali americani, sulla base della sentenza preliminare con cui il giudice distrettuale Rudolph Contreras ha ordinato la rimozione di Xiaomi dalla lista delle presunte compagnie legate all’Esercito Popolare di Liberazione cinese.

Ricordiamo che l’amministrazione Trump aveva firmato un ordine esecutivo per inserire Xiaomi in una blacklist, impedendo di fatto alle compagnie americane di investire i propri capitali nell’azienda creata e guidata da Lei Jun. Tra le motivazioni addotte c’era un premio assegnato proprio al presidente della compagnia asiatica da una compagnia che aiuta il governo cinese a eliminare le barriere tra i settori commerciale e militare.

Il giudice Contreras ha affermato che il processo di inserimento delle compagnie cinesi nella blacklist contiene delle grosse imperfezioni e si basa sostanzialmente su due criteri: lo sviluppo di tecnologie 5G e di intelligenza artificiale. Secondo il Dipartimento della Difesa si tratta di tecnologie essenziali per le moderne operazioni militari, e tanto è bastato per decidere di intraprendere azioni che a quanto pare non hanno fondamento dal punto di vista legale.

Lo stesso giudice ha sottolineato, nella propria sentenza, il fatto che si tratta di tecnologie ormai essenziali nel settore dell’elettronica di consumo e che dal 2004 sono oltre 500 gli imprenditori che hanno ricevuto lo stesso premio di Lei Jun, senza peraltro subire le stesse conseguenze. Come già accaduto per Huawei, sembra quindi che quella dei legami con comunismo ed esercito siano solo delle scuse per affossare lo sviluppo di nuove tecnologie da parte delle aziende cinesi, un metodo alquanto discutibile per favorire le aziende americane.

Sulla scia di questa sentenza dunque, altri imprenditori cinesi colpiti dallo stesso destino, stanno cercando giustizia e come afferma l’avvocato Brian Egan, che in passato ha collaborato con la Casa Bianca, il Dipartimento di Stato e uno degli studi legali che seguono la vicenda: “I fatti che hanno portato all’inclusione di Xiaomi sono quantomeno ridicoli, e credo che porteranno a nuove azioni legali da parte di altre aziende“.

Le autorità americane non hanno ancora deciso quale strada seguire in seguito alla decisione del giudice in favore di Xiaomi, e i portavoce del Dipartimento della Giustizia e della Difesa non hanno rilasciato al momento dichiarazioni ufficiali. In totale sono 44 le compagnie inserite nella blacklist, con una decisione basata su una legge del 1999 che imponeva al Dipartimento della Difesa di pubblicare una lista di compagnie controllate o possedute dall’esercito cinese.

Tra le “vittime” di uno degli ultimi ordini esecutivi di Trump ci sono, oltre a Xiaomi, anche Hikvision, CNOOC ma soprattutto SMIC, il principale produttore di chip della Cina. Nei giorni scorsi alcune di queste compagnie si sono già mosse per cercare di ottenere giustizia, e dopo la sentenza in favore di Xiaomi anche altre stanno procedendo con le rispettive azioni legali.